Sistema feudale napoletano
Tratto da "Relazione Usi Civici di Corvaro-S.Stefano" inedito di Gianni Colabianchi - pag.88-93
I Borboni, ai quali venivano attribuiti molti meriti per aver iniziato l'opera di modernizzazione delle popolazioni a loro soggette, non desideravano inimicarsi i cittadini, come pure la nobiltà ed il clero. Questa è la ragione per cui le leggi e le riforme da loro emanate restarono per lo più sulla carta ed ebbero scarso riscontro nella realtà. Tra le altre disposizioni dirette all'ossequio verso il sovrano, alla soppressione di alcuni privilegi e all'incentivazione delle industrie, mancò chi dovesse farle rispettare, per cui i provvedimenti fu come se non fossero mai stati emessi.
Ciò accadde con Carlo di Borbone come con il figlio Fernando. L'istituzione della "Giunta degli abusi" non sortì, infatti, gli effetti desiderati. Furono emesse disposizioni per restringere il numero degli armigeri baronali, per evitare l'illecito traffico della giustizia, per liberare le "università" da frequenti donativi e le loro amministrazioni dalle pesanti ingerenze dei signori, nonché, l'emanazione di pene pecuniarie e materiali per i baroni colpevoli di concussione e gravezze e relativa perdita dei diritti giurisdizionali, per coloro che ne avessero abusato. Tutto questo restò lettera morta in quanto l'abuso rimaneva nella norma dei comportamenti, come dire che oramai esso era di fatto istituzionalizzato.
Pertanto nel 1799, con l'avvento della repubblica partenopea nata dalla rivoluzione francese, vi fu una massiccia opposizione dei baroni affinché non fosse pubblicata la legge eversiva contro le feudallità. Il che avvenne tuttavia sette anni dopo.
La feudalità aveva acquistato tutti i caratteri del diritto successorio civile e la concessione di feudi ad avvocati, mercanti, banchieri e perfino a donne, in cambio di servigi ottenuti nel passato e nel prossimo futuro, non ne poteva rappresentare più il corrispettivo in quanto ogni aspetto della stessa feudaliltà aveva acquistato caratteri di commercialità. Il simbolismo stesso che accompagnava l'investitura si era ridotto ad una semplice carta e ad un pagamento di una tassa a la Regia Curia. Ogni aspetto peculiare della feudalità era stato tradotto in moneta.
Non vi era più differenza ormai tra un privato che viveva sulle rendite ed un barone che viveva sui tradizionali benefici feudali. Tolto l'assenso sovrano, che arrivava anche dopo aver ottenuto il beneficio, ninte restava di quella stabile istituzione feudale nata con i Normanni e con gli Svevi. L'utile rendita di beni titolati poteva essere ceduta a chiunque, purché i proventi dell'operazione giungessero alla Regia Curia. Chi prestava del denaro al barone poteva garantire pignorando e ipotecando le rendite feudali.
A questo punto più che distruggere il feudo in sé stesso, bisognava indirizzare la lotta a tutta la classe baronale eliminando così la causa di ogni abuso e di ogni violenza a mezzo di una radicale riforma economica.
Cacciati i Borboni e non appena Giuseppe Bonaparte veniva incoronato Re di Napoli, ricordando l'impegno che un decennio prima avevano preso i suoi connazionali, 1799, presentava attraverso i ministri, nel Consiglio di Stato del 2 agosto 1806, un progetto di legge per l'abolizione della feudalità.
La legge, ritoccata in qualche piccola parte, fu nei criteri generali lasciata intatta.
L'applicazione di questa legge veniva affidata alle ordinarie magistrature, le quali senza indugio alcuno cominciarono a ricevere i reclami dei cittadini e quelli dei comuni contro gli ex-feudatari.
Per dirimire le numerose controversie insorte tra i comuni ed i baroni a seguito di tale legge veniva emesso un decreto, il 9 novembre 1807, che istituiva la "Commissione Feudale". Ebbe questa il carattere di magistratura straordinaria e considerata come emanazione diretta dell'autorità sovrana e della regia facoltà di servirsi, in casi eccezionali, di mezzi egualmente speciali e d'eccezione. Il 27 febbraio 1809 venivano firmate le sue competenze.
La cura per l'osservanza delle sue decisione veniva affidata ai procuratori generali e regi presso le corti e i tibunali del regno. L'obbligo relatilvo all'esecuzione all'adempimento veniva affidato agli intendenti, sottointendenti, sindaci e decurioni delle rispettive circoscrizioni.
In tal modo si compiva la liquidazine finale dei privilegi e dei diritti che venivano esercitati sulle persone, sulle industrie e sul commercio. Però, se questi diritti, fondati o infondati, trovavano la loro efficacia in una prestazione da parte dei cittadini o, per meglio dire, in un arricchimento dei feudatari, per effetto delle entrate da questi precepite, essi non costituivano né esaurivano la lunga serie dei privilegi baronali.
Petrella, Fiamignano, Pescorrocchiano e Borgorose erano comuni compresi nella provincia di Abruzo Ulteriore Scondo, distretto di Cittaducale i cui circondari erano quelli di Montereale, Antrodocco, Leonessa, Amatice, Avezzano, Carsoli-Tagliacozzo, Mercato e Pescorrocchiano.
Le riforme investivano anche il governo del comune per cui, abolite le consuetudini locali, ogni Università fu chiamata comune. Il governatore scompariva di scena, il feudatario veniva destituito e l'amministrazione della cosa pubblica passava dai giudici al sindaco, che unito a pochi consiglieri, formavano il decurionato.
I nuovi amministratori, come i precedenti, duravano in carica un solo anno e il sindaco era scelto dagli stessi decurioni.
Degna di nota è anche la riforma delle finanze dello stato con la riduzione delle numerose imposte dirette, fino allora esistenti, ad una sola chiamata "contribuzione fondiaria".
Strettamente connessa a tali provvedimenti è l'opera di compilazione del "Catasto provvisorio", ordinata da Gioacchino Napoleone, decreto del 4 aprile 1809, nel quale dovevano essere annotate le quantità ed i valori dei beni immobili esistenti nei singoli comuni ed i nomi dei rispettivi proprietari, al fine di distribuire equamente il carico fiscale.
Il ritorno dei Borboni a Napoli, faceva sorgere fra gli ex feudatari la speranza di vedere annullata l'opera riformatrice di Napoleone ed essere reintegrati nel possesso degli antichi feudi.
Uno dei primi provvedimenti del governo, fu la nomina di un'apposita Commissione Consultiva istituita pr verificare se i criteri seguiti dalla Commissione feudale, erano ispirati a giustizia e conformi all'antica giurisprudenza, con Reale Rescritto, del 19 settembre 1815 venivano stabiliti i principi che dovevano essere presi in esame e le persone cui questo incarico veniva affidato.
Durante il corso dei lavori della Commissione i baroni rimettevano alla stessa una loro dettagliata memoria con la quale cercavano di dimostrare come tutte le decisioni della Commissione Feudale fossero state ingiuste ed arbitrarie e che, compito prioritario della Commissione nominata, era quello di evidenziare gli errori e le ingiustizie perpetrate.
La Commissione nel presentare il rapporto non teneva in nessun conto le osservazioni fatte dai baroni, accoglieva e confermava complessivamente i principi e le massime della riforma.
A questo rapporto i baroni rispondevano con una loro memoria nella quale dopo aver criticato l'opera del governo napoleonico, cercavano di dimostrare l'infondatezza della giurisprudenza eversiva.
Questo scritto era in definitiva l'ultimo tentativo pubblico e collettivo che la classe baronale faceva al fine di essere reintegrata nei possessi e sovvertire la legge eversiva emanata.
La legge dell'11 dicembre 1816, art. 9, confermava tacitamente l'abolizione della feudalità. L'altra, del 20 settembre 1817, riconosceva e confermava pienamente le sentenze emesse dalla Commissione Feudale.
A seguito della riconferma dell'abolizione della feudalità veniva stabilito che ogni comune dovesse avere le sue rendite separate da quelle dello Stato, dei privati e degli altri comuni. Veniva abolilta e vietata ogni promiscuità di demanio, di rendita e di diritti (art. 154). Veniva dichiarata abusiva ogni occupazione ed alienazione illegittima di demanio comunale a qualunque tempo fosse essa rimontata (art. 176). I demani comunali continuavano ad essere divisi fra i cittadini previo pagamento di un annuo canone a favore del comune (art. 182). Le terre abbandonate sarebbero ritornate al demanio comunale come pure quelle che, per tre anni consecutivi, erano state lasciate incolte o che prima del decennio erano state vendute o ipotecate (art. 185).
Le operazioni di divisione dei demani, come pure l'esame delle controversie riguardanti lo scioglimento delle promiscuità e le usurpazioni del demanio comunale, venivano delegate agli intendenti i quali avrebbero dovuto provvedervi nel consiglio di intendenza, salvo approvazione del Ministero dell'interno (art. 177, 186).
La legge dette più stabile assetto all'esercizio del uso civico di pascolo per cui, dopo aver stabilito che quest'uso doveva essere conservato sulle terre in cui esiteva, vietava la vendita in massa dell'erba e permetteva che i comuni esigessero la fida (art. 188). Veniva invece vietata la fida sui boschi comunali adibiti ad uso di legna (art. 191).